Covid19, note sui test diagnostici

Si parla tanto di test diagnostici per Covid19: antigenico, molecolare, anticorpale. Ma se ne parla a proposito ed a sproposito. E’ quasi diventata una mania, al primo malessere, pensare di andarsi a sottoporre almeno al test da comprare in farmacia. Certamente i test disponibili oggi sono più evoluti dei predecessori ma il tallone d’Achille rimane la corretta esecuzione.

Per chi volesse saperne di più trova appresso una sintesi tratta dall’articolo di Chiara Sabelli pubblicato sul sito Scienza in rete il 15.01.2022.

Iniziamo dai test antigenici rapidi che ricercano gli antigeni (cioè delle proteine) del virus presenti sulla sua superficie. Queste proteine a contatto con l’organismo umano lo stimolano a produrre degli anticorpi specifici contro il SARS-CoV-2. Quindi nel tampone del prelievo, se nel soggetto è presente il virus, ci saranno le proteine di superficie cioè gli antigeni, invece nel contenitore, dove si depongono alcune gocce del campione diluito, è presente una striscia di materiale assorbente contenente, in una zona di reazione, anticorpi specifici per il SARS-CoV-2 capaci di legarsi agli antigeni. Il contatto tra antigene ed anticorpo attiva una reazione chimica che colora la striscia assorbente nella posizione contrassegnata, solitamente, dalla lettera T. La validità del campione raccolto viene invece segnalata da una seconda linea pigmentata di solito contrassegnata dalla lettera C.

Nell’ultimo anno sono stati messi a punto test antigenici rapidi più sofisticati. come quelli con lettura a immunofluorescenza.

I test RT-PCR, i cosiddetti “molecolari”, ricercano specifiche porzioni dell’RNA del SARS-CoV-2 in un campione prelevato tramite tampone nasofaringeo. Sono in grado di rilevarne la presenza anche se la concentrazione è estremamente bassa, perché sfruttano un processo di amplificazione. I campioni devono essere analizzati in laboratori dedicati e da personale specializzato e la loro elaborazione richiede diverse ore.

“La prestazione (o meglio l’affidabilità) di questi test è misurata da due parametri, chiamati sensibilità e specificità.

La sensibilità è la probabilità che un test dia risultato positivo se la persona testata è infettata con il SARS-CoV-2.

La specificità è la probabilità che il test dia risultato negativo se la persona testata non è infetta.”

Questi due parametri sono stime ottenute in “condizioni ideali” che i produttori dei test dichiarano nel richiedere l’approvazione per il loro utilizzo.

Sia per i test RT-PCR (molecolari) che per quelli antigenici (rapidi) la specificità sembra essere superiore al 99,9% sia in laboratorio che nell’utilizzo comune.

Per quanto riguarda la sensibilità dei test RT-PCR (molecolari), uno studio clinico finlandese l’ha stimata all’89,9% e superiore alla sensibilità dei test antigenici (rapidi). Ma la sensibilità dei test molecolari dipende dalla esperienza del prelevatore, come dimostrato da uno studio inglese pubblicato a luglio 2021. Infatti tale studio considerando campioni prelevati da personale inesperto e da operatori specializzati, ha riscontrato che la sensibilità era pari almeno al 45% (personale inesperto) e all’80% (personale specializzato). Lo stesso studio ha anche valutato la sensibilità dei test antigenici rapidi rilevando che essa aumenta insieme alla carica virale e con carica virale elevata (più di un milione di particelle virali per millilitro) la sensibilità è almeno dell’80% per i campioni prelevati da personale inesperto e almeno dell’85% per i campioni prelevati da operatori specializzati.

I risultati di uno studio pubblicato su Science Advances dimostrano che: “uno screening efficace dipende in gran parte dalla frequenza dei test e dalla velocità di segnalazione ed è solo marginalmente migliorato dall’elevata sensibilità del test. Concludiamo quindi che lo screening dovrebbe dare la priorità all’accessibilità, alla frequenza e al tempo dal campione alla risposta; i limiti analitici di rilevamento dovrebbero essere secondari.”

Ma qual’è il periodo di maggior contagiosità?

Troviamo la risposta nel lavoro pubblicato il 20 dicembre 2021 su The Lancet.

Alte concentrazioni di virus possono essere rilevate nei passaggi nasali degli individui infetti indipendentemente dalle loro manifestazioni cliniche. Le infezioni da SARS-CoV-2 sono classificate come asintomatiche, presintomatiche o sintomatiche. Questa caratteristica significa che i test basati sui sintomi da soli non sono adeguati per controllare la diffusione del virus.

Le prove di 113 studi condotti in 17 paesi mostrano che l’RNA virale SARS-CoV-2 può essere rilevato già 6 giorni prima dell’insorgenza dei sintomi, le concentrazioni raggiungono il picco intorno al momento dell’insorgenza dei sintomi o pochi giorni dopo e di solito diventa non rilevabile dalla parte superiore delle vie respiratorie circa 2 settimane dopo l’esordio dei sintomi e senza differenze sostanziali tra adulti e bambini. La carica virale dei campioni del tratto respiratorio inferiore potrebbe essere maggiore, raggiungere il picco più tardi e persistere più a lungo rispetto al carico dei campioni del tratto respiratorio superiore.

Gli studi che utilizzano colture virali mostrano che, sebbene i pazienti possano rimanere RNA positivi per settimane dopo l’insorgenza dei sintomi, il virus vivo non può essere coltivato da campioni raccolti entro 9 giorni dall’insorgenza dei sintomi, suggerendo che il periodo medio di infettività e il rischio di trasmissione potrebbero essere limitati al periodo compreso tra 2 e 3 giorni prima e 8 giorni dopo l’insorgenza dei sintomi. I campioni negativi alla coltura positivi all’RNA potrebbero rappresentare il rilevamento di frammenti genomici piuttosto che un virus che si replica attivamente.

Sem pre nella stessa pubblicazione si fa riferimento alla risposta dell’organismo verso il virus.

Dopo più di 1 anno dall’inizio della pandemia, la nostra comprensione della risposta immunitaria all’infezione da SARS-CoV-2 rimane incompleta. I dati attuali suggeriscono che le risposte immunitarie sia umorali che cellulari si verificano entro 1-2 settimane dall’esordio dei sintomi. Le risposte immunitarie umorali sono mediate da anticorpi diretti alle proteine di superficie virale (principalmente le proteine spike e nucleocapside), mentre le risposte immunitarie cellulari prendono di mira un repertorio più ampio di proteine virali sia strutturali che non strutturali.

Lo sviluppo di anticorpi IgM e IgG dopo l’infezione da SARS-CoV-2 sembra verificarsi prima rispetto ad altre infezioni virali e raggiunge il picco al giorno 11-14 dopo l’insorgenza dei sintomi. Gli anticorpi IgM e IgG tendono ad apparire quasi contemporaneamente, a differenza di molte altre infezioni virali, in cui gli anticorpi IgM in genere compaiono diverse settimane prima degli anticorpi IgG. La comparsa precoce degli anticorpi consente l’uso dei test degli anticorpi IgM in combinazione con i test molecolari per aumentare il rilevamento dei casi nelle persone che si presentano in ritardo alle cure e nel tracciamento dei contatti.

Per quanto riguarda la durata dell’immunità e la possibilità di reinfezione secondo quanto riportato dal lavoro scientifico, “La reinfezione da un virus respiratorio è comune, principalmente a causa della diminuzione dell’immunità. La reinfezione da COVID-19 può essere definita come la ricorrenza clinica di sintomi compatibili con COVID-19, accompagnata da un test PCR positivo più di 90 giorni dopo l’insorgenza dell’infezione primaria, supportata da un’esposizione a contatto ravvicinato o da dati di sequenziamento del virus per escludere la ricaduta. Un ampio studio di popolazione in Danimarca ha mostrato una protezione stimata dell’80,5% contro infezioni ripetute nell’arco di 7 mesi, senza differenze per sesso. Tra le persone di età pari o superiore a 65 anni, la protezione osservata contro infezioni ripetute è diminuita a circa il 47,1% durante quel periodo. Finora, ci sono poche prove che gli anticorpi SARS-CoV-2 conferiscano un’immunità duratura alla reinfezione. Quando emergono varianti di SARS-CoV-2, il monitoraggio delle reinfezioni è essenziale.

 

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