LA RIBELLIONE NEGATA. Violenza sessuale e “silenzio” in una società sempre meno capace di amare (di G. Seminara)

mito e violenza

 (P.P. Rubens, Pan e Siringa, olio su tavola, 1619)

Alcuni anni fa un episodio di violenza sessuale su una giovane donna siciliana, balzato agli onori della cronaca, scosse l’opinione pubblica ed accese un serrato dibattito. Ancora una volta ad agire è il branco, persone “che si conoscono”, come in molte piccole realtà cittadine… Ma il fatto nuovo, o quantomeno il fatto inatteso, è la ribellione della ragazza, la sua ferma volontà di non rinchiudersi nel silenzio, di dare voce al suo dolore, alla sua sofferenza, ma forse soprattutto alla sua rabbia.

Ci si sarebbe atteso un atteggiamento di solidarietà, di approvazione, di incoraggiamento, specialmente per il fatto che spesso al dramma della violenza sessuale se ne aggiunge inevitabilmente un altro, quello del processo. Interrogatori estenuanti, domande imbarazzanti, quasi sempre anche aggressive, dal momento che, nel necessario gioco delle parti, ognuno degli avvocati in campo deve difendere la posizione del proprio assistito, financo a spingersi nello spinoso campo dell’indifendibile. Allora, può succedere che i difficili contorni della verità possano capovolgere il significato e il carico della sofferenza, invertire il ruolo di vittime e di responsabili.

Ma la ribellione della ragazza suscitò ben diverse considerazioni. Molte persone del paese hanno vissuto come “offesa” l’accaduto. In un’intervista televisiva qualche anziano si pronunciò apertamente per la condanna di quello che la ragazza aveva fatto, infangando il buon nome del paese e non avendo accettato la più tranquilla via del silenzio su quanto “ormai” era successo.

Il silenzio. Su questo tema per noi antico sembra poter cogliere l’eco di un destino a cui la nostra dimensione storica e culturale è legata. Omertà è “ominità”, capacità di essere uomini, di saper sopportare in silenzio. Perché quindi ribellarsi?

Il silenzio della donna, in particolare, nel nostro contesto ha radici antiche. In silenzio le donne, vinte tra i vinti, assistono ai drammi esistenziali dei loro uomini nella letteratura verghiana. In silenzio, hanno sposato uomini che prima o poi avrebbero “imparato ad amare”. In silenzio hanno amato senza speranza. In silenzio hanno accettato usanze e convenzioni che avrebbero disapprovato se avessero riguardato altri contesti sociali.

Ma la forza generatrice, creatrice, della donna è sicuramente grande e questo potrebbe permettere, nel tempo, il superamento di alcune problematiche. Molte donne hanno scritto, hanno prodotto, si sono impegnate nel sociale, hanno testimoniato, a volte simbolicamente, la propria vicenda umana, reclamando così il proprio diritto alla denuncia ed il rifiuto del silenzio.

Mi sembra di poter cogliere in tutto questo l’eco della mitologia classica, di cui la nostra terra si è lungamente nutrita. Riecheggia il mito di Filomela, violentata dal cognato Tereo, ad oltraggio della promessa di lealtà e di rispetto avanzata al suocero che gliela aveva affidata; per evitare che Filomela parlasse, Tereo le taglia la lingua e l’abbandona in un bosco. Ma la donna riesce a far avere alla sorella, Progne, una tela tessuta su un improvvisato telaio, sulla quale raffigura, “simbolizza”, quanto le era accaduto ad opera del cognato. Le due sorelle, come nella tradizione dei miti greci, si vendicano crudelmente.

Diversa sorte tocca invece alla ninfa Siringa, perseguitata dal dio Pan, dio della sessualità sfrenata e perversa, in tutte le sue forme, terrore delle ninfe dei boschi e dei viandanti, che atterriva con il suo urlo beluino suscitando in essi il panico (termine che deriva appunto etimologicamente da Pan). Per sfuggire al dio irsuto e dai piedi di caprone, capace, appena partorito, di atterrire anche la madre Driope, Siringa viene aiutata dalle Naiadi e trasformata in un canneto in prossimità del fiume Ladone e quando il vento soffia canta sommessamente il suo lamento e la sua sventura. Ma Pan recide alcune di queste canne e, facendone pezzi di diversa misura e legandoli insieme, crea con esse il suo strumento musicale, il “flauto di Pan”. Non solo Siringa “non ha più voce”, potendo cantare solo per azione del vento, ma addirittura diventa voce del suo persecutore, la cui musica riproduce senza volontà propria.

Non è, a mio avviso, inutile ragionare sulle vicende umane attingendo anche alla mitologia, ai suoi simboli, ai suoi messaggi metaforici. Anzi, proprio nella nostra cultura siciliana, analogamente a tanti altri contesti, molti valori sono stati esaminati, simbolizzati e tramandati nelle leggende, nelle favole e nei “cunti”. Mi piace ricordare che proprio queste forme narrative in dialetto venivano chiamati “fatti”, un termine che paradossalmente sembra assegnare loro un’incontrovertibile dimensione di “realtà” e di veridicità, pur nell’assoluta consapevolezza del loro essere puro frutto della fantasia popolare.

Per rifarci al pensiero del filologo Kerenyi, che nel mito indica la possibilità di dare forma sensibile e trasparente ai contenuti dell’animo umano, a prescindere dai tempi e dalle culture, visto che il mito “è stato, è e sarà” in maniera archetipica rispetto all’esistenza degli individui stessi, possiamo immaginare che nella società attuale, ormai da tempo, si stia ripresentando con insistenza il mito di Pan, di quel dio che della sessualità non fa un elemento dell’amore, ma solo dell’inappagabile soddisfacimento dell’istinto. Pan non ama, non crea una coppia; egli è solo il dio della sessualità selvaggia, primordiale, non elaborata, all’interno della quale diventa sempre più difficile controllare le forze arcaiche che la ispirano e la violenza che ne può derivare. E quando parliamo del dio Pan come dio “selvaggio”, lo dobbiamo intendere nel senso etimologico di dio della “selva”, dell’intreccio del sottobosco, di quella selva “oscura” in cui è difficile discernere la “diritta via”.

Dare solidarietà e sostegno, incoraggiare la lotta al silenzio, riportare luce all’interno della selva, può forse aiutare ad affrontare meglio il problema e a coglierne in maniera più “illuminata” la reale dimensione. Non è certo questo un lavoro avulso da un contesto di intervento più ampio, ma sicuramente può essere una tessera di un mosaico che amplifica o restituisce valore al contenuto della tela che Filomela drammaticamente e in solitudine ha tessuto.

 

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