In sintesi come nascono BioNTech e Moderna

Partendo dai nostri giorni, dominati dalla pandemia della Covid19 e conseguentemente dalla speranza di un vaccino che ci aiuti a vincere il Sars-CoV-2 (coronavirus), vediamo di conoscere le origini delle due aziende che si contendono gran parte di vaccinazione mondiale con la tecnica dell’mRNA (RNA messaggero). La contesa oltre che nei laboratori si fa anche con annunci dei propri vertici aziendali (con ovvie ripercussioni sulle Borse), annunci ai quali sinora non è seguita la presentazione della documentazione scientifica relativa alle varie fasi sperimentali. Forse in un non lontano futuro ne nascerà un film per narrare con maggiori dettagli la storia. 

Dal sito del Corriere.it sintesi articolo di Sandro Modeo pubblicato il 27.11.20

Il giorno 9 novembre 2020 la Pfizer (in sinergia con l’azienda tedesca BioNTech) presenta un vaccino con efficacia al 90%; una settimana dopo, Moderna presenta il proprio, con efficacia al 94,5%, (la quotazione dell’azione che ad inizio anno era di 19,23 dollari si attesta così agli attuali 95 dollari circa) percentuale sopravanzata dal rilancio di Pfizer poco dopo, che ritocca l’efficacia del proprio vaccino al 95.

I primi farmaci a mRNA tout court a essere in procinto di autorizzazione. È un aspetto che ha innescato scetticismi e sospetti di ogni genere non solo nell’opinione pubblica, ma in molti addetti ai lavori: in America, per esempio, in Peter Hotez (vedi chi è) del Texas Children’s Hospital, tra le massime autorità vaccinali mondiali; da noi, com’è ormai arcinoto, nel microbiologo-parassitologo Andrea Crisanti.

Tra i capi d’imputazione generali: la velocità di messa a punto dei vaccini e i consistenti rialzi azionari delle imprese a ogni annuncio (la procedura «speculativa»);

tra i capi d’imputazione specifici, la carenza di dati trasparenti sulle fasi dei trials e sul biotech utilizzato.

Figura centrale della storia, la biochimica ungherese Katalin Karikó (KK); nata nel ’55 in un paesino di 12.000 abitanti della Grande Pianura a nordest (Kisujszallas). Nella vicina Szeged, città magnifica con un bellissimo quartiere universitario, dal ’78 all’85 si fa le ossa nel centro di Ricerca Biologica, cominciando a sintetizzare l’RNA; a 30 anni, accetta un invito della Temple di Philadelphia. Approda nell’89 alla Pennsylvania University e comincia a concentrarsi sulla terapia genica a base di mRNA.

Da subito, però, emerge il problema principale: l’introduzione di mRNA artificiale nell’organismo può indurre il sistema immunitario a valutarlo come «not-self» molecolare e quindi ad attaccarlo, con un doppio blowback: l’interrompersi dell’istruzione per l’espressione proteica desiderata e una forte reazione infiammatoria.

Nel ’98 la fortuna di un incontro-break risolutivo con (An)Drew Weissman, un talentuoso immunologo laureatosi a Boston, ma di formazione biochimico, come KK (alla Brandeis di Waltham sotto un gigante come Gerald Fasman).

Inizia così, per i due nuovi colleghi, un «corpo a corpo» col problema del «rigetto»: e dopo sette anni ossessivi di tentativi ed errori, arrivano, nel 2005, a pubblicare uno studio rivoluzionario, in cui Karikó e Weissman descrivono la possibile soluzione.

Il sentiero per la messa a punto di un vaccino a mRNA è tracciato, ma il percorso è ancora (molto) lungo. Negli anni successivi a quei risultati-spartiacque, KK e Weissman non riusciranno a sbloccare davvero l’impasse di finanziamenti per la loro ricerca.

A un certo punto proveranno a fondare una loro azienda, ottenendo dal governo un milione di dollari destinati a «sovvenzioni per piccole imprese». Ma subito dopo, la «Penn» venderà la licenza dei loro studi decisivi a Gary Dahl, il capo di un laboratorio di forniture mediche, Cellscript.

La loro scoperta-invenzione si svilupperà altrove, grazie alla percettività di due osservatori, gli unici a coglierne la portata in un panorama di indifferenza e disattenzione: due medici-scienziati il canadese Derrick Rossi e il turco Ugur Sahin.

Si tratta delle due figure all’origine rispettivamente di Moderna e di BioNTech.

Alla pubblicazione dello studio-spartiacque di KK e Weissman, Rossi non ha ancora 40 anni e sta concludendo un post-dottorato sulle staminali a Stanford. Folgorato da quel contributo, cerca di svilupparle un paio d’anni dopo all’Harvard Medical School di Boston (dove ora è Ordinario), utilizzando l’mRNA nella versione «silenziata» della pseudouridina per istruire cellule staminali adulte a «riprogrammarsi» in embrionali totipotenti. Dato che i risultati diventano più che promettenti, Rossi ne informa il collega Timothy Springer, che è anche imprenditore biotech; e questi informa a sua volta una figura leggendaria (ma ambigua) come Robert Langer, professore di ingegneria biomedica al MIT e inventore così prolifico da esser collegato a 400 brevetti tra farmaci e dispositivi medici.

Un pomeriggio di maggio del 2010 i due colleghi di Harvard visitano Langer nel suo sancta sactorum a Cambridge. L’oggetto di quelle due ore di conversazione è ormai «materiale da leggenda». L’unica certezza è che Langer intravede a sua volta nella tecnica ideata da KK e Weissmann un numero «sconcertante» di possibili applicazioni (di farmaci: vaccini inclusi).

Tre giorni dopo, Rossi si rivolge a un’altra company, Flagship Ventures (ora Pioneering), fondata e condotta da Noubar Afeyan, un imprenditore libanese molto più amorale e aggressivo di Langer. Anche lui si entusiasma, intravedendo benefici per l’umanità e profitti per sé (in ordine invertito).

Pochi mesi dopo (settembre 2010), Rossi crede così di fondare con Moderna (acronimo di «Modified RNA») la propria company; in realtà, con quei due soci (Langer e Afeyan), sembra Pinocchio al campo dei miracoli col Gatto e la Volpe.

In breve, tutti guadagnano centinaia di milioni, dal suo collega Springer (il primo a investire) ai due dioscuri scienziati-manager, che ottengono fondi (e più tardi rialzi azionari del titolo) coi soli annunci di farmaci rivoluzionari. Decisivo, in questo ruolo, l’ingresso nel 2011 di Stéphane Bancel (ora CEO dell’azienda), artefice del finanziamento «astonishing»(stupefacente) del 2013: 240 milioni di dollari per 40 farmaci potenziali da parte di AstraZeneca.

È un passaggio esemplare. Il neuroscienzato di origine greca Mene Pangalos (allora Executive Vice President, Innovative Medicines & Early Clinical Development (IMED) Unità Biotech di AstraZeneca) plana da una Cambridge all’altra per avere lumi sulla seconda «grande questione» dei farmaci a mRNA (oltre al «rischio rigetto»): la stabilità molecolare. Bancel, per rassicurarlo, gli sottopone alcuni esperimenti-break, in particolare quello condotto da un altro dei co-fondatori di Moderna, Kenneth Chien. Il tutto eseguito in modo impeccabile con la tecnica della pseudouridina ideata da KK e Weissman.

Secondo Jason Schrum, un chimico uscito da Moderna poco prima di quel capolavoro di persuasione, la fase iniziale dell’azienda è connotata proprio da una non comune capacità di suggestione commerciale, esercitata prefigurando «panacee biofarmacologiche» sulla base di «molti dati generici» e «nessun allegato specifico».

Nel 2014 Rossi, «imbarazzato» per il duo Langer-Afeyan (che l’avrebbe più volte calunniato, descrivendolo come interessato solo alle staminali e sordo alle altre implicazioni della medicina a mRNA), lascia per sempre la «sua» azienda.

Non c’è dubbio che dietro i proclami si siano accumulati i flop (tecno) scientifici e l’accusa formale di Nature, nel 2016, di non fornire mai paper «peer-review» (a revisione paritaria tra scienziati) sulle sue biotecnologie. Ma dal 2016, la company muta nel profondo dovuto soprattutto all’arrivo di Melissa Moore, posta al vertice della gerarchia scientifica. Nata a New Market (Virginia), studi di biochimica e biologia molecolare tra MIT, Brandeis e Worcester, la Moore ha trascorso 20 anni a studiare (quasi) solo «come l’RNA nascente si giunta al nucleo e si lega alle proteine per diventare un complesso denominato ribonucleoproteina messaggera o mRNP».

Moore e Moderna approfondendo gli studi spartiacque di Karikó e Weissman si accorgono di come le modifiche ai nucleosidi (uridina in primis) per rendere l’mRNA più elusivo del sistema immunitario possano renderlo allo stesso tempo meno riconoscibile al ribosoma.

Grazie agli studi dei bioinformatici si riesce a capire come frequenza e posizione dei nucleosidi modificati mutino proprio il loro modo di piegarsi e quindi di interagire col ribosoma, facilitandone e contrastandone il compito; e siccome ogni proteina — cioè ogni «farmaco» — può essere codificata da trilioni e trilioni di sequenze di nucleosidi, si tratta di selezionare quelle più efficienti.

Il contributo decisivo viene fornito da una chimica quantistico-computazionale, Michelle Lynn Hall(Ely Lilly e Columbia University), i cui calcoli individuano un algoritmo in grado di predire appunto, per una data proteina da produrre, la sequenza nucleosidica più adatta, «la struttura più appetibile» per il ribosoma. In questo modo, il limite dello studio di Karikó-Weissman viene colmato.

Rispetto al problema già accennato della stabilità molecolare dell’mRNA, che espone un farmaco a mRNA al rischio di frantumarsi prima di arrivare al citoplasma e al ribosoma, pare sia stato lo stesso Weissman a intervenire per primo «impacchettando»la molecola in nanoparticelle lipidiche.

La differenza principale tra il vaccino a mRNA di Pfizer-BionNTech (BNT162b2) e quello di Moderna (mRNA1273) è probabilmente proprio nella diversa stabilità strutturale a richiedere nel primo una temperatura di conservazione molto più bassa (tra -80° e -70°). E lo stesso vale per il tempo di conservazione, col primo che degrada dopo 5 giorni a refrigerazione normale, l’altro che può durare fino a 6 mesi, restando attivo fino a 30 giorni dopo lo scongelamento (fino a 4 gradi).

Ureg Sahin ha un iter accademico-professionale in costante, paziente crescendo. Laurea a Colonia e pratica nell’ospedale universitario (ematologia e oncologia); a Zurigo, lavora con due medici che entreranno nel comitato scientifico di BioNTech; approda a Mainz, dove nel 2006 diventa Associato di oncologia sperimentale.

L’incontro con Özlem, figlia di un chirurgo di Istanbul, che si sta laureando in immunologia, fonde le loro competenze, si dedicano così all’immunofarmacologia oncologica.

Nel 2001 fondano Ganymed Pharmaceuticals, che li porterà a produrre l’anticorpo monoclonale zolbetuximab (specifico per tumori esofageo, gastrico e pancreatico) e che venderanno nel 2016 alla giapponese Astrellas per 1,4 miliardi di dollari.

Nel 2008, a Mainz (Magonza), fondano invece BioNTech (Biopharmaceutical New Technolgies), dove iniziano a sperimentare farmaci a mRNA.

Fin dall’inizio, la strategia operativa e lo stile sono opposti a quelli di Moderna: per i primi 5 anni, Sahin decide di operare — secondo le sue stesse parole — in «modalità sottomarino», concentrandosi sulla ricerca pura, coordinata col suo laboratorio universitario e senza particolari promesse o proclami.

Terminato il quinquennio, tutto cambia: l’impresa comincia a pubblicare i suoi risultati (150 papers in 7 anni) e Sahin annuncia per il trattamento immunologico del cancro una partnership con 8 aziende farmaceutiche e l’allestimento di 13 complessi specifici per i trials chimici e l’assunzione di Katalin Karikó (diventata ora Senior Vice President), «soffiata» proprio a Moderna.

In questi ultimi 7 anni, BioNTech è cresciuta così fino all’assetto attuale (1500 dipendenti); accordi e partnership si sono moltiplicati (come quello dell’anno scorso con la Bill e Melinda Gates Foundation per la ricerca su tubercolosi e HIV), e il valore dell’azienda dopo la pubblicazione del vaccino in partnership con Pfizer, è salito da 3,4 miliardi di dollari a 25.

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